Un Re aveva tre
figliuole belle come il sole e ch'egli amava più degli occhi
suoi.
Avvenne che il Re, rimasto vedovo, riprese moglie e
cominciò per le tre fanciulle una ben triste esistenza. La matrigna era gelosa
dell'affetto immenso che il Re portava alle figlie e le odiava in segreto. Con
mille arti aveva cercato di farle cadere in disgrazia del padre, ma visto che le
calunnie non servivano che a farle amare di più, deliberò di consigliarsi con
una fattucchiera.
- Si può farle morire - rispose
costei.
- Impossibile: il Re ammazzerebbe anche
me.
- Si può deturparle per sempre.
- Impossibile:
il Re m'ammazzerebbe
- Si può affatturarle in qualche
modo...
- Vorrei una fatatura che le facesse odiare dal padre,
per sempre.
La strega meditò a lungo, poi disse:
-
L'avrete. Ma mi occorre che mi portiate un capello di ciascuna strappato con le
vostre mani e tre setole porcine, strappate con le vostre
mani...
La matrigna ritornò a palazzo e la mattina seguente entrò
sorridendo nelle stanze delle tre principesse, mentre le cameriste ne
pettinavano le chiome fluenti.
- Figliuole mie - disse con voce
affettuosa - voglio insegnarvi un'acconciatura di mia
invenzione...
E preso il pettine dalle mani delle donne, pettinò
Doralice.
- Ah! mamma, che mi strappate i
capelli!...
Pettinò Lionella.
- Ah! mamma, che mi
strappate i capelli!...
Pettinò Chiaretta.
- Ah!
mamma, che mi strappate i capelli!...
Salutò le figliastre e uscì
con i tre capelli attorti nel dito indice... Attraversò i giardini, i cortili,
giunse alle fattorie, entrò nel porcile e con le sue dita inanellate strappò tre
setole da tre scrofe grufolanti.
Poi ritornò dalla
strega.
La strega pose in un lambicco i tre capelli dorati e le
tre setole nere, vi unì il succo di certe erbe misteriose e ne distillò poche
gocce verdastre che raccolse in una boccetta.
- Eccovi, Maestà.
Le verserete nel bicchiere del Re, all'ora del pranzo. È la fattura dello
scambio; l'effetto sarà immediato.
La Regina si tolse dalla
corona la pietra più bella, la regalò alla strega e se ne andò.
Alla mensa
regale sedevano il Re, la Regina, le tre principesse, cinquecento dame e
cinquecento cavalieri.
La Regina versò furtivamente nel calice
del Re il filtro fatato e attese, ansiosa di vederne l'effetto. Aveva appena
bevuto che il Re stralunò gli occhi, come preso da sdegno e da meraviglia, e si
alzò accennando verso le figlie:
- Che beffa è questa? Chi ha
messo tre scrofe al posto delle mie figliuole? Che beffa è questa? Via di qui!
Via le bestie immonde!
E alzatosi furibondo cominciò a malmenare,
a percuotere le figlie, a spingerle, a inseguirle attraverso le sale, i
giardini, i cortili, fino al porcile dove le rinchiuse.
Dal
porcile trasse, invece, le tre scrofe corpulente e prese ad abbracciarle,
chiamandole coi nomi delle figlie; poi le condusse a palazzo, le fece salire a
mensa, sui seggi delle tre principesse:
- Chiaretta, Doralice,
Lionella, povere figlie mie, chi vi fece l'onta di chiudervi là
dentro?
E le baciava amorosamente.
Tutta la Corte,
seduta a mensa, rideva.
Il Re aggrottò le
ciglia.
- Perché si ride?
Allora un cavaliere si
alzò:
- Maestà, perdonate, ma quelle sono tre
scrofe!
Il Re, furibondo, lo fece immediatamente tradurre in
prigione, nei sotterranei delle torri.
E riprese a baciare le tre
bestie che grugnivano.
La Corte rideva.
- Perché
si ride?
Un secondo cavaliere si alzò:
- Maestà,
perdonate; ma, in nome di Dio, quelle non sono le tre reginette, sono tre
scrofe.
Il Re lo fece decapitare all'istante, per lesa maestà. E
la Corte non rise più.
Le tre bestie furono vestite con abiti
regali, adorne di gioielli, servite da cento cameriste. Il re le voleva vicine
sempre, le accompagnava a passeggio, a mensa, a Corte, alle danze, ai
ricevimenti. E ovunque le tre scrofe passavano, dame e cavalieri facevano ala,
piegandosi fin in terra, inchinandole e ossequiandole come principesse del
sangue.
Ma tutti soffocavano le risa,
mormorando:
- Passa il Re ammattito, passa il Re Porcaro!...
Chiaretta,
Lionella, Doralice passavano i loro giorni nel porcile, piangendo e invocando
pietà. Il Re, che amava occuparsi in persona delle sue fattorie, passava
talvolta con la Regina accanto al porcile; e le sue figlie si protendevano
piangendo verso il padre che non le riconosceva.
- Padre! Padre
caro, non ci ravvisate? siamo le vostre figliuole! Che colpa è la nostra? Che
vendetta è la vostra? Liberateci, per pietà!...
Il Re le guardava
distratto attraverso le sbarre del porcile e diceva alla
Regina:
- È strano come queste tre bestie grugniscono
pietosamente e protendono le zampe verso di me...
La Regina,
inquieta, voleva liberarsi delle figliastre definitivamente.
-
Osservate, Maestà, come son fresche e rosee: io consiglierei il gastaldo di
farne salame...
- Dite bene - rispose il Re - oggi stesso darò
ordine di farle sgozzare...
Le tre reginette caddero prive di
sensi.
Rinvennero al
luccichìo di coltellacci enormi. Furono legate mani e piedi ad un bastone; ogni
bastone, sorretto ai capi da due bifolchi, prese la via del
macello.
Cammin facendo le tre sorelle supplicavano i loro
aguzzini
- Comando del Re!
Esse piangevano,
disperate.
- Comando del re! Se il Re si sapesse disobbedito
farebbe sgozzare anche noi.
Ma quelle tanto piansero e
supplicarono che i sei carnefici s'impietosirono.
- Bisogna
promettere di non ritornare alla Reggia mai più.
Le tre sorelle
promisero.
Allora i bifolchi le portarono fino ai confini del
regno, le slegarono e le abbandonarono al loro destino.
Rimaste sole e
povere, in paese straniero, le tre principesse dovettero lavorare per campare la
vita. Per loro fortuna avevano imparato fin da bimbe ogni lavoro donnesco; e
sapevano cucire e ricamare a perfezione.
La bellezza misteriosa
delle tre ricamatrici faceva correre strane voci nella città, ma esse vivevano
quiete e laboriose nella piccola casa modesta. Rimpiangevano talvolta l'affetto
del padre e il regno perduto.
Lionella sparecchiava la mensa e
diceva:
- A quest'ora ci si abbigliava per il
ballo...
Doralice rigovernava i piatti e diceva:
-
A quest'ora le nostre donne ci davano il bagno nell'acqua di
rose...
Chiaretta scopava e diceva:
- A quest'ora
si andava a caccia dell'airone col girifalco...
E
sospiravano.
Picchiava sovente alla porta un vecchio mendicante
dalla barba bianca; e sempre le sorelle gli donavano una scodella di
minestra.
- Grazie, figliuole! Che mani da
principesse!...
- Siamo principesse.
E una sera si
sedettero col vecchio sulla panca della strada e gli confidarono la loro
storia.
- Povere figliuole! Non m'è nuovo questo incantesimo...
Il Re, vostro padre, ha bevuto la fatatura dello scambio...
E
trasse fuori dalla bisaccia un libercolo di pergamena sgualcito e cominciò a
sfogliarlo attentamente. L'aveva trovato anni addietro, nella caverna di un
monte, presso lo scheletro d'un eremita.
- Contro la fatatura
dello scambio c'è un'acqua infallibile: l'acqua che balla, che suona, che canta;
ma non si sa dove sia...
Per molti giorni le sorelle meditarono
le parole del vecchio. E una sera Lionella disse:
- Sorelle mie,
io sono la primogenita. Ho deciso di tentar la sorte per tutte. Partirò alla
ricerca dell'acqua miracolosa.
Abbracciò le sorelle piangenti e
sul fare dell'alba se ne partì.
Passarono i giorni, le settimane,
i mesi; e Lionella non ritornava.
Compiva l'anno, il mese, il
giorno quando Doralice disse a Chiaretta:
- Sorella mia, sono la
secondogenita. È giusto ch'io mi metta alla ventura. Partirò
domani.
All'alba abbracciò la sorella e se ne
partì.
Chiaretta restò sola nella piccola casa deserta. Passò il
tempo.
Compiva l'anno, il mese, il giorno e Chiaretta decise di
porsi alla ventura.
Cammina, cammina,
cammina...
Attraversò fiumi e boschi, monti e pianure, mendicando
un tozzo di pane ai casolari. Le massaie, sulla soglia, guardavano stupite
quella bella mendica giovinetta.
- Buone donne, sapreste darmi
notizia dell'acqua che balla, che suona, che canta?
Ma quelle si
stringevano nelle spalle. Nessuna sapeva.
E Chiaretta riprendeva
sconfortata il cammino. Una sera si addormentò tra le foglie secche, sotto un
castagno. All'alba si sentì tirare una ciocca, sulla tempia: si volse e vide una
lucertola con due code impigliata nei suoi capelli d'oro.
- Ho
passata la notte nei tuoi capelli ed ora son prigioniera... Liberami e ti
ricompenserò!
Chiaretta liberò le zampine dall'intrico dei legami
sottili.
La lucertola le diede una delle sue due
code.
- Tienla preziosa. Ad ogni domanda ti
risponderà.
Chiaretta contemplò a lungo il moncherino che
s'agitava nella sua palma distesa.
- Coda, codina, sai dirmi
dov'è l'acqua che suona, che balla, che canta?
E la coda girò
nella palma della mano, si tese verso un punto dell'orizzonte come l'ago di una
bussola.
Chiaretta prese quella
direzione.
Cammina, cammina, cammina, giunse in un paese lontano,
fra dirupi spaventosi; e sentì la codina agitarsi nella sua tasca, quasi ad
avvisarla. Domandò ad una vecchietta notizie dell'acqua
portentosa.
- Sì, la fonte è qui! Ma è in custodia di un
negromante che abita lassù, in quel castello che vedete. Arrivano sovente dame e
cavalieri, entrano nel giardino delle sette porte, ma nessuno ne esce
più...
Chiaretta entrò coraggiosa nel giardino fatato, stringendo
in una mano l'ampolla vuota, nell'altra la codina miracolosa. Il giardino era un
labirinto dalle mille strade tortuose dove fatto il primo passo si restava
smarriti.
Ma Chiaretta seguiva ogni movimento della codina
oscillante nella palma della sua mano. E gira e rigira, sul tramonto riuscì in
una pianura dove in una conca immensa si raccoglieva l'acqua
meravigliosa.
Attorno alla fontana si vedevano, a perdita
d'occhio, statue di marmo candidissimo.
Chiaretta fece per
riempire l'ampolla, ma sentì la codina agitarsi disperata nell'altra mano, e
l'osservò. Il moncherino cominciò a piegarsi a N, poi a O, poi ancora a N, poi
prese a parlare con lettere viventi:
- Non toccare l'acqua
fatata! Chi la tocca resta di marmo.
Allora Chiaretta appese
l'ampolla ad un filo, la calò e l'estrasse ricolma; poi la turò e la pose in
tasca. Pensava al ritorno quando riconobbe in una statua la sorella Doralice;
guardò quella dopo: era Lionella. Prese ad abbracciare il freddo marmo,
piangendo.
- Coda, codina, risuscita le mie
sorelle!
Accostò il moncherino alle statue e quelle rivissero
all'istante.
Le tre principesse ripresero la via della patria.
Giunte al
regno del padre, le sorelle si travestirono da pellegrine, per non essere
riconosciute dalla matrigna che le credeva morte; e col volto coperto d'un velo
fitto e il petto adorno di conchiglie e d'amuleti si presentarono al
palazzo.
Il Re le ricevette nella sala del trono. Accanto a lui
sedeva la matrigna e le tre scrofe usurpatrici, vestite di stoffe preziose,
adorne d'oro e di gemme.
- Sire! Siamo pellegrine reduci di Terra
Santa. Abbiamo portato dai paesi del Gran Turco un'acqua dilettosa che vogliamo
offrire alla Maestà Vostra.
E Chiaretta trasse fuori l'ampolla,
la sturò, la depose ai piedi del trono.
Subito ne balzò fuori
l'acqua fatata, fece un inchino e cominciò a salire i gradini del trono danzando
e cantando al suono di una musica lontana. La sua canzone narrava di tre
principesse perseguitate dalla matrigna e d'un Re insanito per un filtro
malvagio, narrava tutta l'istoria pietosa delle tre
giovinette.
La matrigna fece per ghermire e disperdere l'acqua
delatrice ma la toccò appena che restò di marmo.
Al Re fu come
cadesse dagli occhi una benda; vide le tre bestie immonde sedute sui seggi delle
figlie rinnegate, capì, e scese a braccia aperte stringendo le tre pellegrine
che si erano scoperte il viso.
La Corte acclamava il Re rinsavito
e le principesse redivive.
Queste, pietose, vollero ritornare in
vita la Regina pietrificata, e cercarono la coda di lucertola, ma la coda non
c'era più.
E la matrigna di marmo, col volto furente e le mani
protese, fu collocata su un piedistallo, nell'atrio del palazzo, e vi restò nei
secolo come statua della malvagità.